Razia, Juma Gul e Mohammed Wali.

In inverno l’attività nell’ospedale di guerra di Emergency a Lashkar-gah, in Afganistan, cala rispetto al resto dell’anno. “Cala” nei numeri, non nelle tragedie che la popolazione civile patisce.

Razia viene da Babaji, un villaggio dove si combatte ormai da anni. Stava tornando a casa a piedi, con la sua famiglia, quando «dei soldati» hanno cominciato a sparare. Razia ha un femore fratturato, uno zigomo rotto e una vasta ferita alla testa. Ci mostra anche la ferita da proiettile che l’ha colpita a una mano un anno fa. Ha 7 anni ed è già “veterana di guerra”.

Due letti prima di lei Juma Gul, 5 anni, sta mangiando del riso. Ha metà del viso coperto dalle medicazioni e la gamba sinistra fasciata. Era di fronte a casa, a Grishk, quando è esplosa una granata.

Mohammed Wali ha 8 anni e viene da Marjah, un altro villaggio martoriato dalla guerra. Ha appoggiato il piede su una mina mentre ritornava dal bazar. Ha camminato fino a casa, con il piede dilaniato. Il padre l’ha portato immediatamente al nostro ospedale, ora un grande bendaggio gli copre il moncone appena sotto il ginocchio.

Tutto questo nell’arco di una settimana, d’inverno, quando i “numeri” calano.

Per maggiori informazioni e donazioni visita il sito http://www.emergency.it

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Lettera aperta sul Darfur.

Lettera aperta sul Darfur.
Raccontando il Sudan, per non dimenticare e per continuare…

Cari amici,
 il mio ultimo viaggio in Sudan, in occasione del referendum per
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l’indipendenza del Sud Sudan, é stato più duro e, in certi momenti,
pericoloso rispetto ai precedenti. Ho passato dei giorni con un gruppo
di ribelli che mi ha anche fornito delle foto (ne allego una per farvi
capire di che parlo…) che testimoniano i crimini in Darfur.
 Ho avuto la possibilità di parlare con i sopravvissuti degli ultimi
attacchi delle forze militari del governo e ho capito, ancora una
volta, che per quello che ha subito e continua a subire, questa gente
– donne violentate e mutilate prina di essere uccise, ragazzini
bruciati vivi nelle scuole, interi villaggi distrutti – non sarà mai
pronta alla pace se prima non verrà loro garantita giustizia.

Le sensazioni che mi ha lasciato questo viaggio sono contrastanti.
 
Come avevo scritto nel novembre del 2009, quando con l’intergruppo
Italia Darfur andammo a Zam Zam camp, non ho trovato volti scavati
dalla fame, – come nel 2005 e nel 2007 -persone disperate che
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non avevano neanche la forza di chiedere aiuto. Stavolta non sono
state le migliaia di persone che pelle e ossa vagavano per i campi
profughi con gli occhi sbarrati dal panico o le testimonianze delle
ragazze violentate che mi hanno raccontato il terrore degli stupri
subiti a segnarmi profondamente. Questa volta è bastato il
‘contesto’… Il degrado umano dilagante, l’assenza di ogni
barlume di speranza negli sguardi, la delusione trasformata in
rassegnazione di non poter cambiare uno ‘status’ incancrenito, che
ti porta a perdere dignità e futuro.

La situazione alimentare è migliorata ma la distribuzione del cibo e
l’assistenza umanitaria sono sempre a rischio. E la gente non ce la
fa più. Questa esistenza ai limiti della sopravvivenza e del decoro,
hanno ‘inciso’ un marchio indelebile sulla loro pelle.

Quando bambini di quattro – cinque anni si azzuffano e calpestano i
fratellini di pochi mesi pur di strappare dalle mani di
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chi li porge quaderni e matite che probabilmente non useranno mai,
comprendi che per loro il presente e il futuro sono segnati da
abbandono, disinteresse e violenza.

E allora ti chiedi… ha senso andare avanti? Forse chi mi chiede che
senso ha continuare a occuparsi del Darfur, un posto così lontano e
senza speranza,e mi consiglia di usare meglio le mie energie – a
cominciare dai miei colleghi giornalisti mai così numerosi in Sudan –
ha ragione? Poi mi torna in mente una vecchia massima che dice: non
interessa al mondo chi del mondo non si interessa… E allora ogni mio
dubbio svanisce: fino a quando io continuerò a occuparmi di Darfur,
qualcuno a cui interesserà quello che ho da dire ci sarà sempre. Se
anche la mia voce si zittisse, allora sarebbe più
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‘facile’ ignorare questa tragedia. E così smetto di pormi domande, la
risposta è dentro di me ed è una convinzione ferma.
 
 Ignorare quella gente per me non è possibile, perché il loro dramma
è il mio dramma, la loro battaglia è la mia battaglia, la loro
speranza e la mia speranza!

Spero sia anche la vostra…

Con affetto,

Antonella Napoli

Presidente di Italians for Darfur.

Ancora storie dalla lontana Lashkar-gah.

 

Quando è fuori in giardino, ha sempre un sorriso per chi gli si avvicina. Nella sua situazione non so chi riuscirebbe a sorridere: Quadratullah ha più o meno 12 anni e non ha più le gambe. Stava giocando fuori da una casa con i suoi due fratelli, Nanai di 14 anni e Naquibullah di 10, quando una porta socchiusa li ha incuriositi.

Si sono avvicinati in fila indiana: quando Nanai ha aperto la porta è stato dilaniato da un’esplosione; dietro di lui Quadratullah, parzialmente riparato da suo fratello, si è ritrovato a terra con metà del viso ustionata, le gambe ridotte a moncherini, la mano sinistra ferita dalle schegge. Il fratello più piccolo, coperto dai corpi dei due fratelli maggiori, è stato colpito da alcune schegge sugli arti superiori.

È quasi un mese che Quadratullah è arrivato al nostro Centro chirurgico di Lashkar-gah: è stato operato, curato, nutrito e riabilitato. Ora è autonomo, riesce a fare quasi tutto sulla sedia a rotelle che non abbandona mai.

Verrà dimesso a giorni e ci parla dei suoi desideri, fa progetti: vorrebbe andare a scuola, ma nel suo villaggio non ce n’è nemmeno una. È felice quando gli diciamo che potrà portare a casa la sua sedia a rotelle, per lui è un grandissimo regalo. Non riusciamo a rispondergli, la sua felicità per una carrozzina ci lascia senza parole.

 

Per maggiori informazioni, donazioni e sostegno visitare il sito  http://www.emergency.it

 

 

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Storie da Lashkar-gah.

Dice di avere “almeno 90 anni”, Abdullah. Ha vissuto sempre nel villaggio di Musa Qala, a quattro ore di macchina dal nostro ospedale di Lashkar-gah. È la seconda volta che viene in questa città: la prima è stata per portare del cotone da vendere al mercato con alcuni dei suoi figli. La seconda è questa: per essere ricoverato nel nostro ospedale. Non ha nemmeno mai visto Kabul in tutta la sua vita.

Si ricorda del tempo di re Zair Shah Khan, “che voleva aprire molte scuole” nel suo distretto, e anche del tempo prima. Si ricorda che sono almeno 60 anni che sente e vede guerre nel suo paese. Si ricorda che anche questa volta c’è stato un feroce combattimento: era nei campi ad aiutare i suoi figli, si ricorda di aver sentito un gran bruciore dietro, poi non ricorda più nulla.

È arrivato da noi in stato di shock: un proiettile l’aveva colpito al gluteo ed era uscito dalla pancia. Lo abbiamo operato e ora è in corsia, i suoi occhi vivaci non smettono di ammirare tutto quello che gli capita intorno. Continua a ringraziarci per quello che facciamo, per il nostro ospedale che “cura tutti gratuitamente” e dove “addirittura” non deve pagare il cibo che gli viene servito tre volte al giorno.

Per maggiori informazioni visitare il sito http://www.emergency.it

 

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Darfur: una petizione per cancellare un assurda condanna a morte di bambini.

Petizione per cancellare la condanna a morte dei bambini del Darfur.

“Ci risiamo. Il 21 Ottobre, la Corte Speciale ha condannato a morte
altri quattro bambini, ritenuti colpevoli di aver partecipato
all’assalto di un convoglio in Sud Darfur, nel maggio 2010. Solo due
minorenni sono stati sottoposti a visite mediche per verificarne
l’età, come prevede il Sudanese Child Act, approvato dallo stesso
Governo, che proibisce l’esecuzione di minori di 18 anni.

Firma anche tu l’appello di Italians for Darfur, affinchè la pena di
morte venga commutata in altra pena. Circa 15.000 persone lo hanno
già fatto in sole tre settimane, in occasione della precedente
denuncia di Italians for Darfur, consacrandone il successo con la
sospensione della pena. Anche questa volta, speriamo, grazie alle
vostre firme, di recapitare in breve tempo il nostro appello alle
autorità sudanesi”.

Antonella Napoli, Presidente di Italians for Darfur

Con questo appello chiediamo al Governo sudanese di sospendere la
sentenza ma anche di approfondire le responsabilita’ del
coinvolgimento di questi bambini in azioni di guerra.

Ferma la mano del boia, firma l’appello di Italians for Darfur.
<http://www.italianblogsfordarfur.it/petizione/>

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maggiori siti e social network italiani:

http://www.italianblogsfordarfur.it/petizione/

La felicità di tornare a camminare.

A Sulaimaniya, Jabar torna a camminare a passi pari e uguali.

Jabar, 12 anni, arriva al Centro di riabilitazione di Emergency a Sulaimaniya accompagnato da suo padre per sostituire la protesi, rotta e ormai troppo piccola per lui. Jabar aveva perso la gamba nel 2007, quando la sua casa venne bombardata.

Arriva con la vecchia protesi, insieme ai pochi effetti personali, in un sacchetto di plastica. Il bambino sarà ospite del Centro di riabilitazione di Emergency per il tempo necessario alla produzione del nuovo arto. Jabar è felicissimo e si presta volentieri, giorno dopo giorno, a tutte le prove intermedie necessarie alla costruzione della gamba nuova.

Dopo qualche giorno la nuova protesi di Jabar è pronta. È perfetta, Jabar può finalmente tornare a casa. Ha abbandonato le stampelle sul letto, non gli serviranno più. Fa l’ultimo giro nel Centro, guardandosi orgoglioso nelle finestre a specchio, è davvero un uomo.

Mentre se ne va, saluta portandosi la mano sul cuore. Adesso può tornare a giocare, a vivere, con i suoi passi pari e uguali.

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Emergency: più di 30000 persone all’ incontro nazionale di Firenze.

 

 

Oltre 30 mila persone hanno partecipato all’Incontro nazionale di Emergency, dal 7 al 12 settembre a Firenze. Dibattiti, concerti, conferenze e spettacoli per raccontare il lavoro di Emergency e gli ideali che l’hanno guidato in questi anni.

Uguaglianza, rispetto dei diritti umani, solidarietà… sono il fulcro del documento Il mondo che vogliamo, discusso a Firenze con artisti, filosofi, giornalisti e scrittori:

“Crediamo nella eguaglianza di tutti gli esseri umani a prescindere dalle opinioni, dal sesso, dalla razza, dalla appartenenza etnica, politica, religiosa, dalla loro condizione sociale ed economica.

Ripudiamo la violenza, il terrorismo e la guerra come strumenti per risolvere le contese tra gli uomini, i popoli e gli stati. Vogliamo un mondo basato sulla giustizia sociale, sulla solidarietà, sul rispetto reciproco, sul dialogo, su un’equa distribuzione delle risorse.

Grazie a tutti coloro che hanno deciso di stare con Emergency: Patti Smith, Nicolai Lilin, David Riondino, Marco Paolini, Jean Ziegler, Samuele Bersani, Lorenzo Monguzzi, Bebo Storti, Renato Sarti, Fabio Fazio, Roberto Saviano, Andrea Camilleri, Vauro, Massimo Fini, Antonio Tabucchi, Stefano Bollani, Fiorella Mannoia, Arturo di Corinto, Anna Meacci, Serena Dandini, Lella Costa, Antonio Albanese, Stefano Rodotà, Marco Revelli, Neri Marcorè, Casa del Vento.

                                 Notizie dall’ Afganistan. 

                                   

Aumentano i ricoveri per cause di guerra negli ospedali di Emergency a Lashkar-gah e a Kabul

Il Centro chirurgico di Emergency a Lashkar-gah è stato riaperto il 29 luglio scorso.
In un mese di attività, l’ospedale ha registrato il più alto numero di ricoveri degli ultimi anni: 214 pazienti, di cui 167 per ferite di guerra. Di questi, 22 erano donne e 58 bambini sotto i 14 anni.

Negli ultimi mesi, la città ha cambiato faccia con l’arrivo di decine di migliaia di profughi dai villaggi vicini, dove si combatte ininterrottamente da mesi: bombardamenti, rastrellamenti, sparatorie tra talebani e truppe afgane e alleate sono all’ordine del giorno.

Lashkar-gah – come Kabul – è tappezzata di manifesti per le elezioni parlamentari del prossimo sabato, mentre i talebani chiedono alla popolazione “di unirsi alla jihad e alla resistenza contro gli invasori stranieri”.

Anche al Centro chirurgico di Kabul sono aumentati i ricoveri per cause di guerra. Solo ieri, 15 settembre, l’ospedale ha ricevuto 22 feriti, di cui 7 bambini colpiti da un bombardamento che ha ammazzato sul colpo due altri loro compagni e 10 persone ferite da proiettile durante una manifestazione alla periferia di Kabul.

Per saperne di più sulle attività di Emergency in Afganistan visita il sito http://www.emergency.it

 

   
   
   
 
 
 

Un anno fà moriva Teresa Strada.

Teresa Sarti Strada, presidente di Emergency, ci ha lasciati un anno fa.

“I bambini, qui, quando hanno finito di giocare a pallone si tolgono le scarpe. I nostri bambini in Iraq, quando hanno finito di giocare si tolgono le gambe”. Teresa aveva un modo semplice e disarmante di raccontare il lavoro di Emergency, il suo lavoro. A volte bastava dare un’immagine: quella, appunto, dei “nostri bambini”, dei pazienti saltati su una mina e curati presso i centri chirurgici di Emergency in Iraq, che poi hanno ricevuto un paio di gambe (o di braccia) nuove nel Centro di riabilitazione che oggi porta il suo nome.

A raccontare dei nostri pazienti e delle loro ferite, specialmente quando si tratta di bambini, si rischia di scadere subito nella retorica: nulla di più lontano da Teresa, dalla sua personalità, e dalle sue parole. Nessuna retorica in lei, nessun compatimento, nessuno spazio per la commiserazione: di fronte alle brutture che ogni giorno invadono i nostri ospedali non bisogna perdere tempo a dire “poverini”, c’è semmai da chiedersi “E adesso che cosa possiamo fare?”.

La cosa più preziosa che possiedo è un libro di Bertolt Brecht, le Poesie di Svendborg, che mi ha regalato lei, vent’anni fa. Alcune poesie hanno accanto un segno a matita – perché “sui libri non si scrive a penna!” – e sono le sue preferite, quelle che “questo basta a capire la guerra”.

La guerra che verrà non è la prima: prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente ugualmente.

Ecco: senza retorica, solo una constatazione. A farne le spese è la povera gente, sempre e comunque. E Teresa, nel corso dei quindici anni della sua storia d’amore con Emergency, l’ha visto bene: Cambogia, Sierra Leone, Afganistan, Iraq… lingue diverse, colori diversi, sapori diversi, storie diverse, ma in fondo la stessa storia: la povera gente faceva la fame.

Teresa è morta un anno fa, il primo settembre di un pessimo duemilaenove. In quest’anno, non è riuscita a vedere molte cose: la sua Emergency continua a lavorare, e tanto. Abbiamo inaugurato un nuovo Centro pediatrico di Nyala, in Darfur, da lei tanto voluto. Un Poliambulatorio per migranti (e non solo) a Marghera, che aprirà a metà ottobre. Il Centro che presto costruiremo nella Repubblica Democratica del Congo. E adesso che cosa possiamo fare?

Cecilia Strada

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Lashkar-gah: i primi cento giorni di chiusura.

A cento giorni dalla chiusura dell’ospedale di Lashkar-gah

Lo scorso 10 aprile l’ospedale di Emergency a Lashkar-gah è stato chiuso in seguito all’irruzione di uomini della polizia e dei servizi di sicurezza afgani e di militari britannici e al prelevamento di membri dello staff di Emergency, rilasciati dopo alcuni giorni perché “completamente innocenti”.

L’ospedale di Emergency era l’unica struttura in grado di offrire assistenza chirurgica gratuita e di elevata qualità alla popolazione di tutta la provincia di Helmand. Per questa ragione stiamo lavorando per riaprire al più presto l’ospedale di Lashkar-gah.

Abbiamo riscontrato la disponibilità delle autorità centrali alla riapertura e abbiamo avuto conferma del loro apprezzamento per il nostro lavoro.

Restano però inaccettabili le condizioni poste dal Governatore di Lashkar-gah, che vincola la riapertura alla presenza di militari afgani intorno all’ospedale e al passaggio del controllo delle attività dell’ospedale al ministero della Sanità locale.

Emergency è costretta a rifiutare queste condizioni per due ragioni:

Un ospedale è un luogo di cura: Emergency tornerà a Lashkar-gah solo se il suo ospedale potrà tornare a essere un luogo “ospitale” per tutti, dove si cura chi ne ha bisogno, senza discriminazioni, in base all’etica della professione medica e ai principi delle convenzioni internazionali per l’assistenza ai feriti di guerra. La presenza di militari armati all’esterno dell’ospedale viola il principio di neutralità e limita l’accesso al Centro dei feriti.

In 11 anni di lavoro in Afganistan, inoltre, Emergency ha potuto verificare che il ministero della Sanità locale non è ancora in grado di farsi carico dei bisogni della popolazione. Se Emergency accettasse le condizioni poste dal governatore, il suo ruolo sarebbe limitato a mero finanziatore del progetto; abbiamo invece la certezza di poter continuare a essere molto più di una banca per l’Afganistan e la sua popolazione.

 

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Un passo di troppo…….

Un passo di troppo.

Al Centro di riabilitazione di Emergency a Sulaimaniya, nel Kurdistan iracheno, è tempo di diplomi: si è concluso il ventesimo corso di formazione professionale organizzato da Emergency per i disabili ex pazienti. Tra i partecipanti c’era Azad Abdulla Salih, un uomo di 44 anni che vive a Sulaimaniya.

Azad sa cos’è la guerra, da più di vent’anni ne porta le conseguenze sul proprio corpo. Scappando dai militari ha fatto un passo di troppo: il piede nel posto sbagliato, un campo minato, l’esplosione che gli dilania entrambe le gambe. La prima operazione viene eseguita nell’ospedale militare dell’area; solo più di due anni dopo, nel 1988, gli vengono fornite delle protesi. Per ottenerle Azad deve spostarsi a Bagdad, in una clinica privata; tuttavia il loro peso eccessivo gli impedisce di usarle.

Nel 1992, grazie all’aiuto di un’associazione umanitaria, Azad ottiene delle protesi più leggere. La svolta definitiva arriva per lui nel 1998, quando Emergency apre il Centro di riabilitazione a Sulaimaniya. Azad è tra i pazienti del Centro, che gli fornisce delle nuove protesi che lui stesso descrive come “più comode di quelle che avevo prima”: sono le stesse che oggi, una decina di anni dopo, continua a usare.

Ora Azad, terminata la formazione professionale, è un sarto.

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