Dylan e Amleto, un interessante articolo.


Qui sotto riporto un interessante articolo sull’ Unità di oggi a firma del giornalista Roberto Brunelli.
Questo è il link di riferimento.
http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=64477
L’ossessione e la furia, Dylan-Amleto torna trent’anni dopo.

Di Roberto Brunelli ? L’ Unità 20 Marzo 2007.

Bob Dylan era Amleto. Forse lo è ancora, ma sicuramente pensava di esserlo intorno al rabbioso 1965 in cui l’America stava cambiando pelle. Era lui quel «principe Amleto dell’esagramma» che compariva nell’ultimo capitolo di Tarantula, il «libro segreto», il libro misterioso, incomprensibile, profetico, avanguardista o del tutto farneticante (dipende dai punti di vista, ovvio) che l’uomo di Blowing in the wind aveva scritto e poi nascosto fino al 1971, per poi tenerlo di nuovo nascosto per svariati decenni, prima di riprendere la penna in mano e scrivere la sua strana ma fascinosa autobiografia, Chronicles volume 1 (uscita nel 2005). L’aveva nascosto perché certo era una cosa complicata essere Amleto, forse un po’ anche Shakespeare, e al tempo stesso William Burroughs, T.S. Eliot, Allen Ginsberg, un pizzico di James Joyce, magari tuffandosi in un fiume «talking blues» con venature voodoo…

Il fatto è che Tarantula – che il 22 marzo ritorna nelle librerie italiane per Feltrinelli con una nuova traduzione di Andrea d’Anna (pp. 348, euro 10,00) – è soprattutto una lunga «sinfonia per voce sola», un tentativo di mettere in prosa/poesia quella stessa elettricità che l’ex «menestrello» stava in quegli stessi mesi scaricando sulla tradizione del folk, conferendo alla musica del mutante paese post-kennediano una mitologia sonora e delle coscienze che fino ad allora gli era ignota.

Prosa elegiaca, che alla sua prima uscita (se si esclude qualche migliaio di copie che in un primo momento circolarono negli ambienti underground in edizione pirata) suscitò prevalentemente incomprensione se non, addirittura, imbarazzo, visto che facilmente poteva essere scambiata per qualcosa come uno stream of consciousness: un fiume anarcoide di parole libertarie, in sostanza. In realtà era «una deliberata sfida alla lingua scritta», come scrive Alessandro Carrera, che non solo è professore di letteratura italiana e comparata alla University of Houston, ma soprattutto è uno dei più insigni studiosi dylaniani, traduttore «ufficiale» delle sue canzoni, della sua autobiografia nonché, oggi, insieme a Santo Pettinato, di questa nuova edizione (quella del ’72 era targata Mondadori) di Tarantula. Che «è il tentativo di portare la scrittura fino ai limiti estremi dell’ambiguità fonetica e di senso… Chiede di esser letto ad alta voce, impone al lettore di trasformarsi in esecutore, vuole trasmettere la stessa meraviglia da apprendista stregone provata dal suo autore nei confronti delle possibilità nascoste della lingua», come sostiene Carrera in un articolo per la rivista Poesia, che ne ha anticipato alcuni brani.

Scriveva tra il ’65 e il ’66, Dylan. Ossia nel periodo più discusso e tormentato della sua vita e della sua arte: gli anni di Like a Rolling Stone, del famigerato passaggio dal folk al rock elettrico, delle grida «Giuda!» rivoltegli dai «puristi», i frenetici mesi di Blonde on Blonde e di versi come «the ghost of electricity howls in the bones of her face» (il fantasma dell’elettricità urla nelle ossa della faccia di lei), versi che facevano andare in brodo di giuggiole «le migliori menti di una generazione» (per dirla con Ginsberg) che correvano intorno al vulcano in eruzione che era il rock’n’roll. Un periodo vorticoso che terminò con un incidente di motocicletta che «probabilmente mi salvò la vita», come disse lo stesso Dylan. Il quale, in effetti, era arrivato di corsa in cima alla onda più alta e paurosa di quella «tempesta perfetta» che furono gli anni sessanta, una rivoluzione culturale che stava modificando la nozione che il mondo occidentale aveva di se stesso.
Non a caso i fantasmi di Tarantula sono gli stessi delle canzoni di quel periodo: la violenza ed il paradosso, il sesso fra estasi e ossessione (pare che la Tarantula del titolo altro non sia che il sesso femminile), soprattutto «lo sguardo disincantato di chi stando ai margini della società non ha niente da perdere» (ancora Carrera), il Vietnam.
Passaggi quasi danteschi, in Tarantula, visioni infernali che pure lampeggiavano dalle televisioni degli anni sessanta di quell’America che per l’ennesima volta (certo non per l’ultima) «aveva perso l’innocenza»: «Un giorno stavo cantando in una foresta e qualcuno disse che erano le tre. Quella sera mentre leggevo il giornale vidi che un casamento era stato dato alle fiamme e che tre pompieri e diciannove persone avevano perso la vita». E quanto fosse febbrile, il ragazzo chiamato Dylan, lo racconta una giovane Joan Baez ad Anthony Scaduto, nella prima leggendaria biografia del cantautore. «Scriveva come una mitragliatrice. Rimaneva accovacciato per delle ore con le ginocchia che gli andavano avanti e indietro e facevano “tung, tung, tung”. Se ne stava tutto il giorno nel suo angolino a fumare e bere vino. C’era un solo modo per farlo mangiare: gli leggevo da dietro le spalle e masticavo… allora lui subito si metteva a spiluzzicare nel mio piatto. Ero costretta a cucinare solo roba che si potesse spiluzzicare facilmente».

Benché febbricitante e oracolare, Tarantula è molto più strutturato di quel che si potrebbe pensare. Quarantasette piccoli capitoli in due sezioni ciascuno, di cui la seconda scritta in forma di un’epistola in versi liberi. «Grammatica, ortografia, sintassi e punteggiatura vengono sottoposte a una torsione continua e a permutazioni di senso che spesso spingono il testo sulla soglia dell’indecifrabile, nonché dell’intraducibile», annota un desolato ma coraggiosissimo Carrera. A parte la storia dei tre nomi-chiave che ricorrono nel libro («Aretha», derivato dalla regina del soul Aretha Franklin, ma anche quasi anagramma di heart, cuore, e di earth, cioè terra, e secondo Carrera musa angelica delle arti e della passione; «Maria», nome latino e sinomino di evasione esistenziale e/o sessuale, spirito terreno; «Lenny», come il comico iconoclasta Lenny Bruce, ossia il «fool» rivelatore di verità nascoste nella sua autodistruttività creativa), probabilmente la chiave vera per entrare in Tarantula è la capacità di intenderlo per quello che è: e cioé un «libro orale», un mouthbook sotto forma di incursione letteraria nei paesaggi biblici già ricorrenti in Dylan, un libro – e questo lo dice Dylan medesimo – «fatto di parole» e dove non accade nient’altro se non «le parole».

Parole che mettono in scena il labirinto altamente teatrale dell’universo-Dylan, una specie di celebrazione in cui il personaggio Dylan-Amleto e l’autore Dylan-Shakespeare s’incontrano e s’incrociano: «Qui giace bob dylan / assassinato / alle spalle / da carne tremolante / che dopo essere stata rifiutata da Lazzaro / gli saltò addosso per la solitudine / ma si stupì nello scoprire / che lui era già / un tram e / questa è stata appunto la fine / di bob dylan». Per la verità, Lazzaro gli fu amico, visto che – dice la leggenda – dopo il famoso incidente di moto, Dylan «risorse» e visse per sempre: proprio come quel principe di Danimarca con il teschio di Yorick in mano.

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